Un articolo di Tom Knox sul processo al compagno Duch per la sua partecipazione al genocidio cambogiano operato sistematicamente dai Khmer Rossi.

Il compagno Duch, alto funzionario del regime dei Khmer Rossi durante il loro regime del terrore in Cambogia

Il grande auditorium sembra abbastanza piacevole: quasi sterile, come una sala da concerto modernista in un piccolo paese nordico. Quasi ti aspetti che un trio jazz salga sul palco e faccia un inchino davanti a 500 spettatori. Ma il vetro antiproiettile che protegge il palco smentisce questa illusione. Questo non è un auditorium ordinario. Gli occhi del pubblico si concentrano su un vecchietto cambogiano appena comincia a mormorare al microfono.
“Sono particolarmente dispiaciuto per i molti bambini che abbiamo ucciso massacrandoli contro gli alberi…”.
L’uomo che pronuncia queste parole così violente è il compagno Duch, altrimenti noto come Kang Kek Iew. Questo ex insegnante era un funzionario di alto livello nel regime dei Khmer Rossi, dal 1975-1979, quando furono massacrati 1,7 milioni di cambogiani, attraverso esecuzioni di massa, percosse, torture, fame, nella loro folle ricerca di un paradiso agrario comunista.
La preparazione dell’udienza di oggi è stata preparata a lungo. In seguito al collasso del regime dei Khmer Rossi e all’invasione vietnamita, Duch fuggì – come molti ufficiali – nelle zone rurali della Cambogia. Per vent’anni ha attraversato il paese e adottato diverse identità fasulle. È stato finalmente rintracciato nel 1999 dal fotografo inglese Nic Dunlop, che ha riconosciuto nella scarna figura dell’insegnante di matematica Samlaut, il noto Duch, che una volta gestiva il giardino delle torture dei Khmer Rossi presso Tuol Sleng e i campi di sterminio di Cheong Ek.
Anche allora Duch riuscì quasi a scampare al processo. Per dieci anni i politici cambogiani, i governi stranieri e le agenzia delle Nazioni Unite hanno negoziato i termini precisi di questo Tribunale. Alcuni ritenevano che non sarebbe mai successo. Eppure eccoci qui, nelle Camere Straordinarie della Corte della Cambogia, in un’aula di tribunale appositamente modificata all’estrema periferia di Phnom Penh.
A differenza degli altri quattro leader Khmer Rossi che sono ancora in attesa di essere chiamati in giudizio, Duch ha collaborato con i giudici. Si è dichiarato colpevole dell’accusa principale, cioè dell’organizzazione delle torture e dell’uccisione di 15.000 persone. Nega soltanto di aver commesso personalmente quelle stesse uccisioni.
Perché ha confessato? Qualcuno dice che si tratta di un altro stratagemma dell’astuto, vecchio comunista, mirato a ridurre una sentenza inevitabilmente troppo pesante; altri ritengono che sia davvero il suo rimorso – Duch è divenuto un devoto cristiano qualche anno fa.
La cosa certa è che sembra molto afflitto e teso in questa mattina soleggiata a Phnom Penh. E non è il solo. Posso sentire i singhiozzi soffocati in tutta la sala. Senza dubbio ci sono i genitori qui, genitori di quei bambini che sono stati “fatti a pezzi contro gli alberi” dai subalterni di Duch.

Le udienze di oggi sono le ultime del processo: una chance per Duch di spiegare il suo comportamento – ammesso che una cosa simile sia possibile. E anche un’ultima chance per i Cambogiani per assistere alla testimonianza di un leader dei Khmer Rossi portato davanti alla giustizia: gli altri quattro membri del regime, ancora sotto processo, sono così vecchi che potrebbero morire prima di arrivare in tribunale.
L’avvocato che difende Duch chiede se ha qualcosa da dire. Duch tranquillamente chiede scusa alle sue vittime. Poi sostiene d’aver avuto poca scelta nel fare quello cha ha fatto. Se avesse rifiutato di lavorare a Tuol Sleng sarebbe stato ucciso, gli altri Khmer Rossi non gli avrebbero permesso di andarsene. Si china sul microfono e sussurra “Era l’unico modo per uscirne vivo”.
Pochi minuti dopo la corte si alza e il prigioniero viene scortato fuori. Mentre si allontana dal banco degli imputati, mi rendo conto, con sorpresa, di quanto sia piccolo. Duch è solo un vecchietto, con un viso smunto, che incarna il dolore e la disperazione di un’intera nazione.

La triste storia della Cambogia sotto il violento regime dei Khmer Rossi è uno dei temi più importanti del libro. Ho visitato il paese diverse volte, e scritto due articoli sui Khmer Rossi. Questo è il primo, pubblicato nel 2008.

Per loro natura, la i processi per genocidio sono procedimenti lenti. Tuttavia, quelli contro gli assassini comunisti appartenenti al partito degli Khmer Rossi, hanno sicuramente conquistato il record per la lentezza. Giusto la settimana scorsa è sopraggiunto un altro ostacolo legale, che ha rallentato le udienze non di mesi, bensì di anni.
Una commissione di giudici, alcuni stranieri, altri cambogiani, è stata ammessa in quel giovedì in cui non sono riusciti a risolvere cruciali dissensi. Le divergenze riguardano gli scopi del tribunale e il modo di integrare le leggi cambogiane ed internazionali.
Suona obsoleto. Ma ciò che accade realmente è questo: le autorità straniere credono che i giudici cambogiani non siano sufficientemente preparati e siano corrotti; i cambogiani mal sopportano gli stranieri da loro considerati arroganti e insensibili. In fondo ci sono molti sospetti che il governo cambogiano cerchi di prendere tempo.
Il triste risultato di queste continue dispute è che, dopo così tanto tempo, neanche un solo testimone è stato ascoltato. E il partito degli Khmer Rossi è caduto nel 1979. Potreste pensare che dopo un tempo così lungo il processo sia inutile oltre che impossibile, poiché le prove ormai appartengono a una storia passata e non più attuale. Non è così. In Cambogia sono ancora visibili i dolori e le pene inflitti dal movimento di Pol Pot – ‘Angkar’.
Per esempio, se visitate, come ho fatto io questo week end, il giardino delle torture degli Khmer Rossi, nei sobborghi di Phnom Penh, potete ancora vedere lo schienale di ferro del letto sul quale migliaia di persone sono state frustate, picchiate, elettrizzate e stuprate. Potete ancora vedere le macchie di sangue di alcune povere vittime schizzate sul soffitto.
Alternativamente, se parlate, sempre come ho fatto io la settimana scorsa, con la popolazione cambogiana media per la strada, presto ascolterete la più orribile litania del dolore.
Gli autisti dei tuk tuk, lo staff dell’hotel, gli impiegati delle banche, i venditori di pesce: tutti hanno la stessa straziante storia. “I Khmer Rossi hanno ucciso mia madre”; “Hanno preso mio fratello e mia sorella”; “Non ho più visto i miei figli da…”. L’universalità di questo ritornello non è una sorpresa, se si considerano le statistiche. È stato stimato che, nel loro folle progetto di una utopia agricola, gli Khmer Rossi abbiano ucciso due milioni di cambogiani – attraverso la fame, gli abusi e lo sterminio totale. Due milioni di cambogiani costituiscono circa un quarto dell’intera popolazione della nazione. L’equivalente in Gran Bretagna o in Italia avrebbe comportato la morte di quindici milioni di inglesi.
Questo è il motivo per cui il processo per genocidio è così importante e così rilevante per qualsiasi cambogiano. Questo è il motivo del perché questi ritardi sono così frustranti.
Il governo cambogiano, da parte sua, rifiuta qualsiasi critica. Chea Sim, presidente dell’attuale Partito del Popolo al governo, ha detto settimana scorsa: “Speriamo che gli enti che guardano al processo in modo sempre negativo, adottino un approccio più obiettivo”. Ha aggiunto: “Il Partito del Popolo cambogiano lotta per difendere la sua gente e ha costantemente chiesto giustizia per le vittime del genocidio del regime”.
Tutto questo sarebbe positivo, se non per il fatto che, se i processi ritardano ulteriormente, non ci sarà più nessuno da condannare. Pol Pot è morto in modo squallido ma tutto sommato tranquillo, circa dieci anni fa. Ta Mok, “Il Macellaio”, è morto l’anno scorso. Gli altri personaggi appartenenti agli Khmer Rossi sono ormai tutti tra i settanta e gli ottanta. Incredibilmente, la maggior parte di loro è in libertà, come Himmler a Goring che ancora camminavano per le strade di Monaco nel 1960.

Perché i processi sono davvero così lunghi? Alcuni sostengono che i cinesi, molto influenti in Cambogia, vogliano far dimenticare la loro connessione con Pol Pot e per questo fanno pressioni sui cambogiani affinché evitino un’udienza appropriata. Altra colpa imputata al governo cambogiano è la presenza al suo interno di “simpatizzanti” o ex dei Khmer Rossi.

Secondo alcuni l’intera nazione preferirebbe, quantomeno inconsciamente, dimenticare il passato piuttosto che riviverlo. Questo è sicuramente incomprensibile. E per di più non è una cosa positiva per la Cambogia. Non è giusto per l’umanità. E non è giusto per quelle persone il cui sangue è stato versato e che ha macchiato persino i soffitti del Tuol Sleng.

Una delle principali ambientazioni del romanzo La Bibbia dei Morti è il piccolo del Laos – nel Sud-Est asiatico – con i suoi scenari misteriosi e affascinanti, dalla Piana delle Giare al tanto bello quanto malinconico Luang Prabang.
Di seguito, la seconda  parte di un articolo di Tom Knox in cui l’autore racconta parte delle sue ricerche sul luogo in quel Paese. (leggi la prima parte)

Al mattino mi reco al mercato in città. Mi piacciono i mercati asiatici e in particolar modo il cibo esotico. Questo è una cosa grossa: puoi trovare diverse tipologie di topi, un porcospino, un topo affumicato o un maiale della guinea vivo. Rondini fermentate. Larve di insetti. Rospi. Puzzole. E calabroni marinati in aceto.

Appena metto piede nel mercato mi viene offerta una grande larva succosa e grassoccia da un gentile mercante di api. Una volta che ha raschiato via la cera d’api, la trasudazione e i pezzi di alveare, me la offrirà. Ne prendo una piccola e la mangio. È fredda e molliccia. Devo cercare la strada principale per comprare un secchio dove vomitare. Ma la prima cosa che noto è una ragazza con un turbante bianco e nero, poi un’altra e un’altra ancora. Ci sono ragazze su tacchi bianchi e con cappelli strani che indossano costumi che tintinnano con delle piastrine attaccate alle stringhe.

Una visita veloce al museo degli Ordigni Inesplosi mi fornisce una risposta: un uomo gentile mi spiega che quelle sono donne della dinastia Hmong- i Hmong sono una minoranza etnica, probabilmente immigrata dallo Yunnan o dal Tibet o (secondo alcuni) dalla Lapponia, ora sparsi un po’ in tutta l’Indocina del nord. Sono animisti e molto attaccati alla tradizione, oltre modo indipendenti, persino adesso alcuni di loro abitano ancora le montagne qui vicine rifiutandosi di arrendersi al governo comunista Laoitiano – questo trent’anni dopo la fine della guerra del Vietnam. Pare che questo sia il loro anno lunare, un’occasione per tutti gli Hmong del mondo di indossare i loro abiti più sfarzosi e festeggiare.

L’uomo mi conduce a un aeroporto abbandonato ai margini della città: “ne vedrai altri lì”. Non scherzava. Cinque minuti di macchina e trovo cinquantamila Hmong radunati  in un ampio spazio con molte tende, giostre e ristoranti improvvisati, mentre si godono la settimana più importante del loro calendario. Non ci sono occidentali eccetto me. Per dirla tutta non c’ neanche persona non appartenente alla dinastia Hmong eccetto me. Le ragazze sono vestite in maniera splendida. Noto che alcuni stanno giocando a un gioco che sembra molto strano e piuttosto noioso: si tirano l’un l’altro delle palline da tennis. Ci sono lunghe file di ragazzi e ragazze che con lentezza e laboriosità si tirano queste palline. Tutto qui. Non sembra per niente eccitante. Non mi meraviglio che non vedano l’ora di festeggiare l’anno nuovo dove hanno la possibilità di tirarsi l’un l’altro, con estrema lentezza e per diciassette ore filate, delle palline da tennis fatte in Cina.

Ne ho abbastanza degli Hmong, è arrivato il momento di vedere le giare (velocizzerò la narrativa perché mi sto annoiando così come probabilmente vi starete annoiando voi). Salto in macchina e mi districo attraverso strade orribili verso il sito archeologico numero uno. Le giare sembrano austere, dignitose, larghe,enigmatiche e un po’ smorte. Mi piacciono. Dopo un’ora arrivo al sito archeologico numero tre. Si possono visitare solo tre siti, gli altri sono troppo pericolosi per via di alcune bombe inesplose. Grazie zio Sam. Eppure ci sono turisti che scattano foto al cratere lasciato da una bomba.

Anche presso i siti designati alla visita delle giare, è necessario procedere con cautela tra i piccoli blocchi segnati MAG – Mines Advisory Group – scavalcarli e procedere oltre. Possibilmente. Il sito numero tre è il più lontano e il più bello. Sulla via di casa mi sono quasi perso sulle strade fangose, ma i panorami mi tranquillizzavano comunque.

Quando mi sono ritrovato di nuovo in città, ho scovato un vecchio libro sugli Hmong. Ah. Scopro che il noioso gioco delle palline da tennis in realtà è… un rituale di accoppiamento. È così che gli Hmong scelgono i loro mariti e le loro mogli: ci sono diversi modi di prendere una palla e/o deliberatamente lasciarla cadere e poi cantare una canzone con cui, a quanto pare, hai accettato la proposta matrimoniale della persona che ti ha lanciato la palla. Che cosa dolce. Non c’è da stupirsi se ci perdono del tempo.

Bene, dov’ero arrivato? Mi stavo perdendo, giusto! Il fatto che quasi mi stessi perdendo sulla strada del rientro dal sito archeologico numero tre, sarebbe dovuto essere un avvertimento, ma chi se ne frega. Il giorno dopo decido comunque di guidare di nuovo verso quella deliziosa, accogliente, non così strana Vang Vieng, lungo un percorso più “avventuroso”. La mia guida Lonely Planet per il Laos afferma che c’è anche un circuito a est da Phonsavanh per il Vieng, “ma ancora non abbiamo provato questo percorso”.

Mi piace sempre provare a fare quelle cose che i lettori delle Lonely Planet sono troppo codardi per provare da soli. E così riprendo la strada di casa. Dovrei impiegarci cinque ore o giù di li, a giudicare dalla mappa. Tutto sembra andare per il meglio. Le strade sono sporche e piene di detriti, ma io ho un 4×4. Mi sento intrepido, ma sicuro. Il paesaggio è stupendo. Il sole brilla. Gli Hmong sono in piedi nei campi a giocare al loro rituale di accoppiamento.  Qualche ragazzo indossa un casco, forse si aspetta che molte palline vengano scagliate contro di lui. Poi la strada peggiora e peggiora ancora. Le ore passano. Sperimento la nebbia, la polvere, i camion della legna e la pioggia.

Qui ci sono tre bambini che trasportano cesti in vimini a casa al loro villaggio Hmong sulla collina. I bambini sono i punti. Appena gli passo vicino guidando, bambini e adulti si fermano e mi guardano. Sembrano storditi, sbalorditi, del tutto basiti. Osservano a bocca aperta. Credo siano tutti ammiratori di Tom Knox, letteralmente stupiti e soddisfatti di vedere il famoso scrittore di thriller passare attraverso i loro piccoli villaggi laotiani senza elettricità.

Poi la strada termina: è bloccata da persone responsabili che costruiscono una strada migliore (affrettatevi ragazzi) – sarà chiusa per due ore. Mentre aspetto ho imparato molte cose da un simpatico insegnante di inglese Laotoniano arrivato su una piccola moto. Mi dice che sto andando nella direzione sbagliata: e questo da diverse ore.  Mi dice che ho un bel po’ di giungla da attraversare prima di incontrare di nuovo la civiltà – e aggiunge che la strada è “leggermente sporca”. Mi spiega anche il motivo delle facce degli abitanti del villaggio che ho incontrato. “Non hanno mai visto uno straniero prima d’ora”. È già qualcosa. In quanti posti al mondo si può ancora vivere un’esperienza simile? Quindi non sono solo il primo scrittore famoso della Cornovaglia ad attraversare questi sentieri accidentati, ma sono anche il primo non-Hmong.

Wow. Che meraviglia, la guida Lonely Planet non dice che questa strada non è mai stata “testata”. Ma questo scoraggia anche me. La strada finalmente viene riaperta, ma cala la notte, fredda, buia e agghiacciante, come una malattia. I brividi della giungla. Dove diavolo andrò a dormire? Ho qualche speranza nel “capoluogo”, Tha-Thom, che mi risulta essere composto da una serie di palafitte, baracche e un maiale. Ora sono preoccupato. La mia macchina si è quasi bloccata nel fango più profondo. Non ho mai veramente guidato un fuoristrada prima d’ora – e sto imparando a farlo nel modo più duro. Un gruppo amichevole di Hmong in un minibus infangato mi aiuta a liberare la macchina. Il loro autista insiste sul fatto che dovremmo guidare “insieme”. Per quanto mi riguarda non ho idea di dove diavolo sono, o in che modo possa uscire da questo pasticcio, o dove sto andando a dormire e sono un po’ schivo sulla nozione di collaborazione. Ma cosa posso fare se non affidarmi a loro?

Nel corso delle ore successive, come un diavolo nero, il buio scende sulla foresta nebbiosa e mi rendo conto perché sono così desiderosi di avermi con loro lungo il viaggio. La “strada”, così com’è, sparisce del tutto sotto tre piedi di fango. A questo punto mi sono dimenticato di scattare foto per un motivo ben preciso, sono fuori di testa e concentrato sul non morire.Non ho mai sperimentato un fango come questo: mi arriva letteralmente fino alla cintura. La mia macchina sbanda e si sposta nella giungla, nel buio, a volte quasi fino a ribaltarsi giù dai cigli dei burroni. Ma alla fine il mio nuovo 4×4 si “muove”. Il loro minibus invece è impantanato nel fango. Così devo trainarli fuori. Ancora e ancora. Ogni poche centinaia di metri devo legare una catena alla mia macchina e al loro minibus e tirarli in salvo, nel buio. La metà di loro salta sulla mia macchina in modo da uniformare il peso. Ora ho un carico di ragazze e donne Hmong che ridono nervosamente e guardano un ragazzo che non ha mai veramente guidato una quattro ruote motrici prima di provare a tirare il minibus con i loro uomini, attraverso il buio della giungla e tra le montagne di uno dei paesi più remoti dell’Asia.

Cerco di non farmi prendere dal panico. Questa esperienza difficile va avanti per ore e ore. Inchiodo, faccio retromarcia e impreco disperato. Sempre più fango ovunque. A un tratto un’altra famiglia Hmong compare dal nulla sul retro del mio pick-up, nonna, nonno, baby e tutto il resto. Ora sembra che io stia salvando metà della società Hmong – ma naturalmente anche loro stanno salvando me. Non avrei mai trovato un modo per uscire fuori da queste montagne e da queste foreste da solo. Di notte. Ma siamo davvero riusciti a uscire? Ho guidato per ben dodici ore.

DODICI ORE. Bevo whisky per “rimanere sveglio”. Il bambino piange. La macchina si lamenta. La catena dà un colpo secco. Io sono bloccato. Le lucciole brillano nel buio.  Senza preavviso però la brutta situazione sembra avere una fine. Ecco di nuovo la strada! L’aria si riscalda e noi stiamo scendendo verso l’altopiano del Mekong. Grazie a Dio.

In un angolo buio, afoso e pieno di zanzare, tutti saltano giù dal mio pick-up. Il mio amico Hmong Pow dice che mi vuole bene. Credo che questo sia il suo modo di dire grazie. Le ragazze, ridono, sorridono e ondeggiano. Sono commosso. La vecchia nonna mi saluta. … Siamo stati tutto questo tempo insieme (sob).

Guido da solo. Già mi mancano di già. A mezzanotte mi ritiro in uno squallido albergo Vietnamita nella città di frontiera di Paksen, dove uno sbadigliante ma gentile concièrge mi cucina dei Pot Noodles. Non ho mangiato tutto il giorno e me ne ero dimenticato.

Lunedì mattina. C’è il sole. Dallo stereo della macchina ascolto Bach e Moonbabies. La strada del ritorno a Vientiane è OTTIMA. Mi sento come se avessi 120 anni, ne dimostro 156. Ma chi se ne importa l’ho fatto! L’HO FATTO! Sì, il popolo della Lonely Planet è davvero in grado di “prendere il circuito est da Phonsavan”. Ma se qualcuno là fuori ha in programma di farlo, vi consiglio di portare un’ottima macchina, una bottiglia di scotch, un sacco di tempo e un’intera famiglia Hmong da salvare.

Kharb jai.

Una delle principali ambientazioni del romanzo La Bibbia dei Morti è il piccolo del Laos – nel Sud-Est asiatico – con i suoi scenari misteriosi e affascinanti, dalla Piana delle Giare al tanto bello quanto malinconico Luang Prabang.
Di seguito, la prima parte di un articolo di Tom Knox in cui l’autore racconta parte delle sue ricerche sul luogo in quel Paese.

È venerdì e sto guidando sulle strade del lontanto Laos, verso una delle sue zone più isolate: la Piana delle Giare. Questo altopiano situato in una delle zone più aspre del Paese è famoso per due cose. In primo luogo per i grandi, strani vasi neolitici scolpiti da blocchi singoli, che sono sparsi nei terreni intorno a Phonsavanh, la principale città della provincia. Queste giare risalgono al 2000 aC, o forse più tardi – nessuno ne è sicuro. Sicuramente nessuno ha idea del perché venissero scolpite.
La seconda ragione della notorietà di questo luogo dimenticato dagli dei e dagli uomini sono bombe. Per dirlo senza mezzi termini, in rapporto al numero degli abitanti, il povero piccolo Laos è la nazione più bombardata al mondo. Alcune di queste bombe sono state sganciate dalla Russia, altre dalla Cina e dal Vietnam; la maggior parte, però, sono state sganciate dall’esercito americano. Tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta gli americani hanno speso in media due milioni di dollari al giorno, ogni giorno, sette giorni su sette, per bombardare il Laos.

Gli Yankees hanno sganciato più bombe sul Laos che sulla Germania e sul Giappone durante tutta la Seconda Guerra mondiale. La maggior parte è caduta sulla Piana delle Giare per questo i contadini del luogo utilizzano i rivestimenti delle granate e dei vecchi mortai come  colonne dei cancelli, vasi da fiori o pilastri nei magazzini di riso.

Le bombe- soprattutto quelle a grappolo – uccidono tutt’ora centinaia di laotiani ogni anno. Un’escursione in questa zona del paese può facilmente rivelarsi letale.
La disseminazione di bombe della Piana delle Giare contribuisce al mistero che le aleggia intorno e a dare alla zona un’aria minacciosa. Mentre guido sulle strade sconnesse comincio a pentirmi di esser partito zaino in spalla da Vang Vieng e la mia camera d’albergo con vista mozzafiato sui dintorni.

Il posto dove sto andando è molto più freddo, più in alto, cupo e nebbioso.
Sta scendendo la notte e alcune persone qui sono così povere da non avere l’acqua corrente, figurariamoci l’elettricità. Sono costretti a lavarsi nei canali di scolo o in cisterne comuni. Inoltre non avendo camini nelle loro capanne di legno si scaldano con i fuochi che accendono all’esterno delle abitazioni.

È una scena da inferno dantesco quella che mi si presenta una volta entrato nell’altopiano. La piana piatta e letale è crepuscolare, il cielo oscurato dai fumi e il paesaggio costellato da migliaia di piccoli fuochi; di tanto in tanto intravedo la sagoma di una vecchia mezza nuda, illuminata da fiammelle rosso fuoco, mentre si bagna nel canale sul ciglio della strada. Potrebbe essere un dipinto di Hieronymous Bosch, ma difficile da catturare con la macchina fotografica a differenza dei cumuli di bombe che spuntano ovunque qua e là. Quelle gialle sono quelle a grappolo: i bambini laotiani, credendole giocattoli per via del loro colore sgargiante, non esitano a raccoglierle quando le vedono spuntare in mezzo ai campi, rimettendoci spesso una mano o un braccio.

[fine della prima parte: leggi la seconda]

Nella luce grigia che filtrava
dall’ingresso della grotta
si distingueva una forma scura,
che si fermò. Era grande. Imponente.
Julia cercò di distinguere un volto,
ma vedeva solo una sagoma minacciosa
che si rimise in movimento,
dirigiendosi verso di lei.
Sempre più vicina.
Julia urlò.