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Una delle principali ambientazioni del romanzo La Bibbia dei Morti è il piccolo del Laos – nel Sud-Est asiatico – con i suoi scenari misteriosi e affascinanti, dalla Piana delle Giare al tanto bello quanto malinconico Luang Prabang.
Di seguito, la seconda  parte di un articolo di Tom Knox in cui l’autore racconta parte delle sue ricerche sul luogo in quel Paese. (leggi la prima parte)

Al mattino mi reco al mercato in città. Mi piacciono i mercati asiatici e in particolar modo il cibo esotico. Questo è una cosa grossa: puoi trovare diverse tipologie di topi, un porcospino, un topo affumicato o un maiale della guinea vivo. Rondini fermentate. Larve di insetti. Rospi. Puzzole. E calabroni marinati in aceto.

Appena metto piede nel mercato mi viene offerta una grande larva succosa e grassoccia da un gentile mercante di api. Una volta che ha raschiato via la cera d’api, la trasudazione e i pezzi di alveare, me la offrirà. Ne prendo una piccola e la mangio. È fredda e molliccia. Devo cercare la strada principale per comprare un secchio dove vomitare. Ma la prima cosa che noto è una ragazza con un turbante bianco e nero, poi un’altra e un’altra ancora. Ci sono ragazze su tacchi bianchi e con cappelli strani che indossano costumi che tintinnano con delle piastrine attaccate alle stringhe.

Una visita veloce al museo degli Ordigni Inesplosi mi fornisce una risposta: un uomo gentile mi spiega che quelle sono donne della dinastia Hmong- i Hmong sono una minoranza etnica, probabilmente immigrata dallo Yunnan o dal Tibet o (secondo alcuni) dalla Lapponia, ora sparsi un po’ in tutta l’Indocina del nord. Sono animisti e molto attaccati alla tradizione, oltre modo indipendenti, persino adesso alcuni di loro abitano ancora le montagne qui vicine rifiutandosi di arrendersi al governo comunista Laoitiano – questo trent’anni dopo la fine della guerra del Vietnam. Pare che questo sia il loro anno lunare, un’occasione per tutti gli Hmong del mondo di indossare i loro abiti più sfarzosi e festeggiare.

L’uomo mi conduce a un aeroporto abbandonato ai margini della città: “ne vedrai altri lì”. Non scherzava. Cinque minuti di macchina e trovo cinquantamila Hmong radunati  in un ampio spazio con molte tende, giostre e ristoranti improvvisati, mentre si godono la settimana più importante del loro calendario. Non ci sono occidentali eccetto me. Per dirla tutta non c’ neanche persona non appartenente alla dinastia Hmong eccetto me. Le ragazze sono vestite in maniera splendida. Noto che alcuni stanno giocando a un gioco che sembra molto strano e piuttosto noioso: si tirano l’un l’altro delle palline da tennis. Ci sono lunghe file di ragazzi e ragazze che con lentezza e laboriosità si tirano queste palline. Tutto qui. Non sembra per niente eccitante. Non mi meraviglio che non vedano l’ora di festeggiare l’anno nuovo dove hanno la possibilità di tirarsi l’un l’altro, con estrema lentezza e per diciassette ore filate, delle palline da tennis fatte in Cina.

Ne ho abbastanza degli Hmong, è arrivato il momento di vedere le giare (velocizzerò la narrativa perché mi sto annoiando così come probabilmente vi starete annoiando voi). Salto in macchina e mi districo attraverso strade orribili verso il sito archeologico numero uno. Le giare sembrano austere, dignitose, larghe,enigmatiche e un po’ smorte. Mi piacciono. Dopo un’ora arrivo al sito archeologico numero tre. Si possono visitare solo tre siti, gli altri sono troppo pericolosi per via di alcune bombe inesplose. Grazie zio Sam. Eppure ci sono turisti che scattano foto al cratere lasciato da una bomba.

Anche presso i siti designati alla visita delle giare, è necessario procedere con cautela tra i piccoli blocchi segnati MAG – Mines Advisory Group – scavalcarli e procedere oltre. Possibilmente. Il sito numero tre è il più lontano e il più bello. Sulla via di casa mi sono quasi perso sulle strade fangose, ma i panorami mi tranquillizzavano comunque.

Quando mi sono ritrovato di nuovo in città, ho scovato un vecchio libro sugli Hmong. Ah. Scopro che il noioso gioco delle palline da tennis in realtà è… un rituale di accoppiamento. È così che gli Hmong scelgono i loro mariti e le loro mogli: ci sono diversi modi di prendere una palla e/o deliberatamente lasciarla cadere e poi cantare una canzone con cui, a quanto pare, hai accettato la proposta matrimoniale della persona che ti ha lanciato la palla. Che cosa dolce. Non c’è da stupirsi se ci perdono del tempo.

Bene, dov’ero arrivato? Mi stavo perdendo, giusto! Il fatto che quasi mi stessi perdendo sulla strada del rientro dal sito archeologico numero tre, sarebbe dovuto essere un avvertimento, ma chi se ne frega. Il giorno dopo decido comunque di guidare di nuovo verso quella deliziosa, accogliente, non così strana Vang Vieng, lungo un percorso più “avventuroso”. La mia guida Lonely Planet per il Laos afferma che c’è anche un circuito a est da Phonsavanh per il Vieng, “ma ancora non abbiamo provato questo percorso”.

Mi piace sempre provare a fare quelle cose che i lettori delle Lonely Planet sono troppo codardi per provare da soli. E così riprendo la strada di casa. Dovrei impiegarci cinque ore o giù di li, a giudicare dalla mappa. Tutto sembra andare per il meglio. Le strade sono sporche e piene di detriti, ma io ho un 4×4. Mi sento intrepido, ma sicuro. Il paesaggio è stupendo. Il sole brilla. Gli Hmong sono in piedi nei campi a giocare al loro rituale di accoppiamento.  Qualche ragazzo indossa un casco, forse si aspetta che molte palline vengano scagliate contro di lui. Poi la strada peggiora e peggiora ancora. Le ore passano. Sperimento la nebbia, la polvere, i camion della legna e la pioggia.

Qui ci sono tre bambini che trasportano cesti in vimini a casa al loro villaggio Hmong sulla collina. I bambini sono i punti. Appena gli passo vicino guidando, bambini e adulti si fermano e mi guardano. Sembrano storditi, sbalorditi, del tutto basiti. Osservano a bocca aperta. Credo siano tutti ammiratori di Tom Knox, letteralmente stupiti e soddisfatti di vedere il famoso scrittore di thriller passare attraverso i loro piccoli villaggi laotiani senza elettricità.

Poi la strada termina: è bloccata da persone responsabili che costruiscono una strada migliore (affrettatevi ragazzi) – sarà chiusa per due ore. Mentre aspetto ho imparato molte cose da un simpatico insegnante di inglese Laotoniano arrivato su una piccola moto. Mi dice che sto andando nella direzione sbagliata: e questo da diverse ore.  Mi dice che ho un bel po’ di giungla da attraversare prima di incontrare di nuovo la civiltà – e aggiunge che la strada è “leggermente sporca”. Mi spiega anche il motivo delle facce degli abitanti del villaggio che ho incontrato. “Non hanno mai visto uno straniero prima d’ora”. È già qualcosa. In quanti posti al mondo si può ancora vivere un’esperienza simile? Quindi non sono solo il primo scrittore famoso della Cornovaglia ad attraversare questi sentieri accidentati, ma sono anche il primo non-Hmong.

Wow. Che meraviglia, la guida Lonely Planet non dice che questa strada non è mai stata “testata”. Ma questo scoraggia anche me. La strada finalmente viene riaperta, ma cala la notte, fredda, buia e agghiacciante, come una malattia. I brividi della giungla. Dove diavolo andrò a dormire? Ho qualche speranza nel “capoluogo”, Tha-Thom, che mi risulta essere composto da una serie di palafitte, baracche e un maiale. Ora sono preoccupato. La mia macchina si è quasi bloccata nel fango più profondo. Non ho mai veramente guidato un fuoristrada prima d’ora – e sto imparando a farlo nel modo più duro. Un gruppo amichevole di Hmong in un minibus infangato mi aiuta a liberare la macchina. Il loro autista insiste sul fatto che dovremmo guidare “insieme”. Per quanto mi riguarda non ho idea di dove diavolo sono, o in che modo possa uscire da questo pasticcio, o dove sto andando a dormire e sono un po’ schivo sulla nozione di collaborazione. Ma cosa posso fare se non affidarmi a loro?

Nel corso delle ore successive, come un diavolo nero, il buio scende sulla foresta nebbiosa e mi rendo conto perché sono così desiderosi di avermi con loro lungo il viaggio. La “strada”, così com’è, sparisce del tutto sotto tre piedi di fango. A questo punto mi sono dimenticato di scattare foto per un motivo ben preciso, sono fuori di testa e concentrato sul non morire.Non ho mai sperimentato un fango come questo: mi arriva letteralmente fino alla cintura. La mia macchina sbanda e si sposta nella giungla, nel buio, a volte quasi fino a ribaltarsi giù dai cigli dei burroni. Ma alla fine il mio nuovo 4×4 si “muove”. Il loro minibus invece è impantanato nel fango. Così devo trainarli fuori. Ancora e ancora. Ogni poche centinaia di metri devo legare una catena alla mia macchina e al loro minibus e tirarli in salvo, nel buio. La metà di loro salta sulla mia macchina in modo da uniformare il peso. Ora ho un carico di ragazze e donne Hmong che ridono nervosamente e guardano un ragazzo che non ha mai veramente guidato una quattro ruote motrici prima di provare a tirare il minibus con i loro uomini, attraverso il buio della giungla e tra le montagne di uno dei paesi più remoti dell’Asia.

Cerco di non farmi prendere dal panico. Questa esperienza difficile va avanti per ore e ore. Inchiodo, faccio retromarcia e impreco disperato. Sempre più fango ovunque. A un tratto un’altra famiglia Hmong compare dal nulla sul retro del mio pick-up, nonna, nonno, baby e tutto il resto. Ora sembra che io stia salvando metà della società Hmong – ma naturalmente anche loro stanno salvando me. Non avrei mai trovato un modo per uscire fuori da queste montagne e da queste foreste da solo. Di notte. Ma siamo davvero riusciti a uscire? Ho guidato per ben dodici ore.

DODICI ORE. Bevo whisky per “rimanere sveglio”. Il bambino piange. La macchina si lamenta. La catena dà un colpo secco. Io sono bloccato. Le lucciole brillano nel buio.  Senza preavviso però la brutta situazione sembra avere una fine. Ecco di nuovo la strada! L’aria si riscalda e noi stiamo scendendo verso l’altopiano del Mekong. Grazie a Dio.

In un angolo buio, afoso e pieno di zanzare, tutti saltano giù dal mio pick-up. Il mio amico Hmong Pow dice che mi vuole bene. Credo che questo sia il suo modo di dire grazie. Le ragazze, ridono, sorridono e ondeggiano. Sono commosso. La vecchia nonna mi saluta. … Siamo stati tutto questo tempo insieme (sob).

Guido da solo. Già mi mancano di già. A mezzanotte mi ritiro in uno squallido albergo Vietnamita nella città di frontiera di Paksen, dove uno sbadigliante ma gentile concièrge mi cucina dei Pot Noodles. Non ho mangiato tutto il giorno e me ne ero dimenticato.

Lunedì mattina. C’è il sole. Dallo stereo della macchina ascolto Bach e Moonbabies. La strada del ritorno a Vientiane è OTTIMA. Mi sento come se avessi 120 anni, ne dimostro 156. Ma chi se ne importa l’ho fatto! L’HO FATTO! Sì, il popolo della Lonely Planet è davvero in grado di “prendere il circuito est da Phonsavan”. Ma se qualcuno là fuori ha in programma di farlo, vi consiglio di portare un’ottima macchina, una bottiglia di scotch, un sacco di tempo e un’intera famiglia Hmong da salvare.

Kharb jai.